
Il discorso politico non è una questione semplice, l’ho già approcciato in Fare un discorso – arringa con due erre. Ogni volta che arriva il periodo “propizio” se ne sentono di varie tipologie, di orazioni compiacenti che già presagiscono tanto fumo e niente arrosto. Come lo vorrei io, un discorso politico?
Cosa c’è che non va?
Durante l’ultima campagna politica per le elezioni a Torino ho visitato i tre seggi. Cerco di essere una cittadina scrupolosa. Ho ascoltato i dibattiti e fatto ricerche. E il risultato, ovviamente, è la mia opinione nonché la causa per cui vorrei sentire un discorso diverso.
Il caso si direbbe semplice. Trovo i contenuti deboli, al massimo un paio di categorie di urgenze, e scusate se lo trovo esiguo. Se proprio si vuole capire qualcosa, le intenzioni al di là del detto o non detto, bisogna andare a farsi un giro per il web, dove i programmi politici escono a rate. Mica avranno problemi con il copyright?
Lasciamo perdere la comunicazione non verbale, anche se accompagnata da una frase… valutatela voi: «…sa è parecchio stancante avere tutti quegli aperitivi da fare con gli utenti…» (una citazione da un seggio) e che amplifica la già poco convincente presentazione di sé. Tanto più che la persona probabilmente non si rendeva neanche conto di che “bella castronata” stesse dicendo per descrivere l’attività del seggio, tanto voleva apparire indaffarata.
Passo direttamente alla mancanza degli slogan, che dovrebbe creare una sensazione, dare un messaggio di credibilità e sapere di sincerità. Invece di marcare con gli aggettivi superlativi, dovrebbe scatenare una reazione da “wow”.
Per la formula di come scrivere un discorso politico probabilmente si utilizza il metodo della zuppa. Mettiamo quello che vogliamo e condiamo con il sale. Che importanza fa se la gente capisce o meno quello che si dice in un discorso politico? Basta che sia “mangiabile”.

E cos’è che ho io?
Non è che, visto che mi permetto di giudicare le persone per come dicono di guidare una città, io senta la necessità di dovermi giustificare o di dare delle credenziali. È che ho ancora bene in mente il momento in cui, in un paese fortemente turistico, mi chiesero di candidarmi, dopo aver risolto un problema. Avevo tanta passione per quel posto e mi dispiaceva lasciar andare a rotoli un evento, così ho mediato, fatto una presentazione. Il successo ha fatto il botto – per me inaspettato. Volevo solo fare una cosa giusta, ma la gente aveva apprezzato tantissimo, tanto da ripetere la proposta anche dopo del tempo.
Io allora non ci pensavo ma tempo dopo, in un altro paese, mi era tornata questa idea. La motivazione era diretta dal fastidio che provavo nell’osservare e vivere io, in prima persona, in un luogo poco inclusivo e con marcate riserve verso il diverso. Quando, a tal proposito, ho interagito con alcune persone, mi è stato detto che non avevo l’esperienza e le capacità che una carica politica richiedono, che sarei stata sopraffatta ancora prima di cominciare. Ah, non pensavo di certo propormi come sindaco, magari una carica umile, alle prime armi. Niente da fare.

E quindi penso sia tutta questione del posto e dell’atmosfera del momento. Oggi, da una parte, esiste ancora la solita sfiducia e bisognerebbe colmarla spiegando bene alla gente che cosa si pensa di fare e perché la si può fare. Dall’altra parte sentiamo l’inno della ripartita di chi ce l’ha già fatta ma non si capisce bene come. Si ripete che bisogna prendere questo treno della fantastica crescita all’orizzonte. Sì, io abito a Torino, ma ovunque vada parlo con le persone e osservo, ascolto, e se non ho qualcosa di utile da dire sto zitta. Ma tutti, e sempre, abbiamo qualcosa da imparare.
Ho avuto la possibilità di fare volontariato in un’associazione che raccoglieva alcune anime perse in un rifugio diurno, e mi sono resa conto che non è facile relazionarsi con il diverso. Ho dovuto impegnare del tempo prima di passare dall’osservazione al poter dialogare. Ma ho imparato tantissimo da questa esperienza e la cosa più importante era proprio relazionarsi con il diverso da me, oltre a perdere quel certo terrore che possono suscitare le anime perse. Smettere di pensare che: «Tanto non si risolverà mai».
Adesso mi arrabbio quando un uomo sulla strada mi chiede di dargli qualcosa da mangiare e una donna grida di aver fame. Siamo ancora a questo punto? Sì, certo, dare una ciotola di riso a tutti sulla Terra dicono sia impossibile. Forse qualcuno dovrebbe smettere di farsi dei giretti nello spazio, oppure non buttare il cibo.
Stiamo ancora buttando Le monetine… “È come buttare delle briciole ai piccioni, delle noccioline agli animali in gabbia o i desideri in una fontana” a chi non ha più niente.
Vorrei qualcuno vicino a me
che sentisse la rabbia davanti alle mancanze, che non dovrebbero più esistere. Se vogliamo essere cinici: i portatori problematici, vaganti, disfunzionali, menefreghisti, ignoranti, sporchi, violenti (maleducati, ghettizzati…), insomma, non osservanti delle regole e leggi con o senza volontà propria, sono diversi e sono ovunque. Sopra a tutti gli scalini della società. Capisco che chi sta dalla parte opposta vede che il troppo è troppo, così come il poco si perde dentro i grandi numeri (questo per chi ama gli aggettivi).
Un giorno mi piacerebbe scrivere un discorso per la presentazione di un programma politico di qualcuno che pensi oltre l’elettorato, oltre la tecnica del massimo profitto, all’attirare investimenti materiali. Che non parlasse tanto per il gusto della propria voce senza arrivare mai al dunque e che pensasse a un futuro visibile anche dalle persone che non possono votare perché non hanno il diritto di farlo. Che desse rilievo a tutte le età senza preferenza per una o l’altra. Sarà superfluo aggiungere che rispecchierebbe i miei valori e la voglia di un cambiamento sociale.

Discorso politico (ipotetico)
«Vi dico subito che il mio impegno sarà cinquanta e cinquanta tra diritti umani e far rispettare le regole.»
Il candidato ha cominciato senza indugi e in modo pacato ma deciso. A seguire una breve pausa, come volesse far sedimentare il messaggio. Infatti la sua visione l’aveva ripetuta durante tutto lo svolgimento del discorso politico. Ripetuto, non esageratamente, quanto basta per fissare un messaggio.
«Vi spiego subito perché ho scelto questa idea di occuparmi di diritti umani e del rispetto per le regole. Lo ritengo un modo di vivere costruttivo per la comunità. La nostra collettività.
Facciamo mente locale sui nostri problemi, quelli seri intendo, ovviamente. Che ci stanno a cuore e ci piacerebbe potessero cessare. Sono certo che all’inizio metterete la sicurezza, poter fare progetti per il futuro, magari non siete soddisfatti del sistema scolastico?
Sono pesanti, vero? E dall’altra parte c’è poca fiducia nelle soluzioni. Io non ho una bacchetta magica ma ho una grande voglia di cominciare le mie missioni. Sono convinto che per poterci sentire più leggeri bisognerebbe cambiare lo stile di vita. Cominciando a pensare agli ultimi, ai diversi, a tutti coloro che non hanno più diritti. Queste persone devono tornare ad essere umani, a non essere considerati solo numeri a perdere, perché loro stessi hanno perso una vita dignitosa. Non puoi aiutare te stesso se prima non aiuti chi sta peggio di te. Non puoi ricevere se prima non dai.»
Una pausa, un cambio di posizione, un punto preciso da fissare e poi con tono deciso, leggermente più alto per scandire la parola “fifty” due volte:
Fifty-fifty
«Io mi impegno fifty-fifty per far rispettare i diritti umani come le regole della comunità. Poter costruire una società dove è possibile ricevere quello per cui si sono perse le speranze.
Per esempio vi domando: davvero possiamo ancora studiare la sicurezza, affinché diventi sempre più forte e spazzi via i problemi degli umani lasciati in fondo? Possiamo ancora credere che le regole siano solo un pezzo di carta? Che insegnare la storia contemporanea ai nostri figli non serve a nulla?»
Ci vorrebbe una risposta dal parte del pubblico, perché l’interlocutore si fermi e con un gesto, lo sguardo interrogativo della comunicazione non verbale, cerchi di coinvolgere gli spettatori nel discorso. Magari con un consenso a voce, un applauso… ringraziando, ovviamente, prima di proseguire.
«Cinquanta e cinquanta, dare per avere. Sì! Questa è la mia proposta, per un individuo e la comunità.
Abbiamo tante risorse che stanno lì, inutilizzate. Stiamo imparando a differenziare le immondizie ma dobbiamo imparare a gestire le nostre abitudini:
- trovare il riutilizzo delle cose,
- ricevere da ogni capacità ed età il giusto contributo per un’occupazione soddisfacente,
- il riutilizzo di case abbandonate,
- condividere sempre più gli spazi per relazionarsi, le coabitazioni, i centri di aggregamento,
- essere vigili ed educativi verso chi non partecipa alla comunità in modo civile o accettabile per la serena convivenza.»

Non c’è bisogno di scandire l’elenco tuonando come un treno ad alta velocità, è sufficiente fare delle pause tra un argomento e un altro, lasciare del tempo perché le persone capiscano bene l’argomento che si ha in mente.
«A questo punto vorrete un esempio sul dare, regalare uno scopo nella vita. Educare e vivere senza sprechi, vero?
Per esempio, se le case vuote non sono sufficienti c’è chi trova un modo alternativo nell’impiegare i materiali come la plastica. Le bottiglie che in giro inquinano. La plastica che impiega da 200 a 400 anni per decomporsi. Noi qua, oggi, non abbiamo tutto questo tempo, ma possiamo creare degli spazi per la condivisione con i materiali da riutilizzare. È un esempio ma ce ne sono tanti altri e io con voi sono pronto ad accogliere e discutere le idee per il recupero degli spazi, per dare un tetto sopra la testa a chi non ce l’ha.
Sapete, smettendo di dormire per strada e avendo un’occupazione nella manutenzione, per esempio, si diventa parte della comunità e si contribuisce al suo benessere. Poter tornare ad essere umani, essere accettati e non rappresentare uno spauracchio ha un senso. Legarsi con il prossimo, creare relazioni sane.»
Ripetere il concetto: “relazioni sane”.
«Creare relazioni sane è importante, non dimentichiamo che vale anche per altre realtà, come per l’emigrazione senza controllo e l’emigrazione che resta non integrata. Non bisogna puntare il dito solo verso la scuola per la mala educazione.
Basta inventarsi sicurezze, basta usa e getta, di oggetti e di esseri umani!
Diritti e doveri, cinquanta e cinquanta, se sarete con me, ovviamente, ma io sono pronto già da oggi, voi?»
Io lo voterei
Così mi piacerebbe un discorso, uno che punta alla partecipazione, collaborazione, collettiva. Ci si porterebbe incontrare per strada per avere delle normalissime relazioni umane. Portare in giro il cane, coltivando legami tra di noi e con il territorio. Giorno e notte. Incontrare cultura anche per strada, con sorriso e disponibilità umana. Non lasciare ai giovani come unica scelta di aggregazione solo “la movida”. Fare uscire gli anziani chiusi in casa e far giocare i bambini all’aperto con un’aria respirabile.
No alle monetine. No al disagio sociale. E no alla paura.
Sì alla ritrovata manualità, all’ingegno e alla voglia di fare qualcosa insieme a qualcun altro. Le porte aperte agli artisti, per ridargli la voce, per esprimere le loro visioni con le quali confrontarsi. Datemi la meritocrazia, vi prego!
Sì, forse ho letto Utopia.
Sarà perché l’immagine della paura del domani, di un futuro sfocato, anche grazie alla pandemia, si è fatta più pressante. La sicurezza e la giustizia vengono associate alla paura. E se questa non viene curata, si potrebbe pensare che sia il solito strumento di potere. E questo io non lo voglio. Sono cresciuta in un regime…
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Benvenuti, mi chiamo Veronica Petinardi, sono nata a Praga e anche se scrivo in italiano mi sono tenuta il mio “accento di lingua madre”. Pubblico articoli, narrativa, manuali. La mia specialità sono le parole, italiane e ceche, al servizio delle presentazioni. Offro servizi di scrittura, traduzioni, collaboro a progetti promozionali realizzando pitch.